Pubblichiamo la traduzione di un articolo apparso sul “Financial Times”, che riporta le parole di un protagonista delle telecomunicazioni in Italia e non solo. Lo scontro in atto fra Europa e Paesi emergenti da un lato e gli Stati Uniti dall’altro mette in luce le frizioni geopolitiche e gli interessi economici e produttivi incompatibili. Per tali motivi nella Conferenza Mondiale sulle Telecomunicazioni internazionali (WCIT12) tenutasi a Dubai, che pur si è conclusa con la revisione del Trattato che regola le telecomunicazioni internazionali (ITRs), si è evidenziata una profonda spaccatura. Da una parte chi ha un vantaggio competitivo e strategico controllando la rete (gli Usa) dall’altra tutti gli altri attori. Questi stessi temi, oltre ad essere di fondamentale importanza di per sé, devono essere letti con attenzione in vista del paventato trattato di libero scambio fra Europa e Usa.
[La redazione]
Franco Bernabè, Amministratore Delegato di Telecom Italia e Presidente del GSMA, l’associazione degli operatori di telefonia mobile, ha criticato quella che ha definito “guerra di propaganda”, condotta dagli Stati Uniti, che la settimana scorsa ha provocato il fallimento delle trattative per un’intesa per le telecomunicazioni.
Gli Stati Uniti, congiuntamente al Regno Unito e al Canada, hanno abbandonato i negoziati giovedì notte, sostenendo di essere preoccupati per come un accordo possa permettere alle nazioni di regolamentare la rete e reprimere la libertà di parola.
Bernabè, che in qualità di Presidente del GSMA rappresenta quasi 800 operatori mobili in 220 paesi, ha sostenuto che l’accusa mossa dagli Stati Uniti e dai loro alleati nei confronti di coloro che sono favorevoli al trattato, ritenuti vicini ad alcuni “regimi autoritari”, fosse “ridicola”.
In un’intervista al “Financial Times” ha affermato: “Questa è una guerra di propaganda. L’idea che una cospicua parte dell’industria europea sia stata associata all’Iran e ad altri regimi oppressivi è offensiva. Si tratta di accuse completamente prive di logica e inaccettabili.”
Bernabè, sollecitando le parti a riconsiderare le proprie posizioni, si è unito ai sostenitori dell’accordo nel suggerire che gli Stati Uniti stessero usando il principio di libertà come una copertura per proteggere compagnie quali Google e Facebook dai tentativi per coordinare la regolamentazione.
L’incontro dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, tenutosi a Dubai più di due settimane fa, ha cercato di costruire un ponte tra la rete internet e le reti delle telecomunicazioni.
Un proposito iniziale sarebbe stato quello di porre sullo stesso livello di regole tutte le compagnie internet intese come operatori di rete.
Bernabè ha ribadito: “La regolamentazione ha posto le compagnie europee in una posizione svantaggiata nel panorama competitivo. Non ci sarebbero potuti essere un Google o un Facebook europei, perché sarebbe stato molto complesso attenersi alle regole e agli obblighi delle leggi europee sulla riservatezza”.
I fautori di una rete libera, che comprenda Google, temono che le ampie clausole disposte dall’ITU circa la sovranità nazionale e la sicurezza possano essere usate per legittimare la censura, il monitoraggio clandestino e il blocco dei siti informatici.
“Si dovrebbe raggiungere un compromesso.” Bernabè ha continuato: “Abbiamo bisogno di maggiore regolamentazione da parte degli Stati Uniti, e molto meno norme sul fronte europeo. Se ci fosse lo stesso campo di azione non staremmo a discutere.”
“Mentre l’industria di tlc statunitense è stata capace, grazie al contesto normativo, di adattarsi e contenere nuovi concorrenti, l’industria europea è stata schiacciata, frammentata, resa incapace di reagire, inflessibile e costretta da un enorme mole di obblighi legislativi.”
Bernabè stava parlando al “Financial Times” durante il lancio del suo libro, Libertà vigilata, che racchiude le sue opinioni sulla riservatezza nell’era di internet.
Bernabè è in disaccordo con il carico di informazioni personali che passa attraverso organizzazioni statunitensi come Walmart, Google e Facebook.
Fonte: “Financial Times” 17 dicembre 2012.
Traduzione Lorena Orio