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INTERVISTA A STEFANO VAJ SUL CASO DEI MARÒ

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Intervista a cura di Filippo Pederzini.

Stefano Vaj, noto professionista milanese e docente all’Università di Padova, si occupa di metapolitica, visione del mondo e attualità scientifica e culturale dalla fine degli anni settanta.

 

 

1) La vicenda che vede coinvolti i due marò italiani in India, può in
 un qualche modo avere ripercussioni negative anche da un punto di
vista economico, dati i non pochi rapporti intessuti tra realtà 
imprenditoriali italiane di rilievo e lo Stato indiano?

Da qualsiasi punto di vista la si prenda, è difficile contestare che il modo in cui tutta la vicenda è stata affrontata è stato il peggiore possibile ai fini dei rapporti bilaterali. A cominciare dall’increscioso incidente stesso, per continuare con la strumentalizzazione dell’arresto in India dei due sospettati da parte dei media e della politica italiana al fine di suscitare quel tipo di “tifo” sciovinista che evidentemente si contava potesse, oltre che distrarre in generale da altri problemi, accrescere il consenso o i lettori di chi fosse pronto a spararle più grosse.

Naturalmente, l’aspetto più grottesco è stato l’atto finale del (tentativo di) rifiuto da parte del governo italiano di onorare la parola data all’atto della richiesta del permesso elettorale per i due imputati, salvo fare marcia indietro quando l’India ha alzato la voce.

Ora, tutto questo poco edificante teatrino ha certo finito per suscitare un livello di irritazione le cui conseguenze vanno al di là delle possibili distinzioni tra i soggetti economici attivi nella penisola e il governo che gli stessi volenti o nolenti si ritrovano.

 

 

2) Indipendentemente da come evolverà l’intera questione come ne potrà 
uscire l’immagine dell’Italia da un lato e quella dell’India
 dall’altro? E in che modo evolveranno i rapporti tra i due Paesi?

La situazione da un punto di vista legale è abbastanza chiara.

Due persone sono state arrestate con l’accusa di aver ucciso dei cittadini indiani, e portate avanti al giudice di quel paese. Il giudice stesso – come farebbe il giudice svizzero o quello peruviano, del resto – non può far altro che sottoporle a un processo, solo al termine del quale, ed a mente delle prove offerte dall’accusa e dalla difesa, lo stesso potrà decidere sulla base della sua legge se ha giurisdizione oppure no (ad esempio perché il fatto è avvenuto fuori dalle acque territoriali).

La giurisdizione infatti è *una* delle tante questioni che il processo serve a decidere, esattamente come quella se il fatto sussiste, se è l’imputato che l’ha compiuto, se esistevano esimenti come l’errore scusabile o la legittima difesa, eccetera.

Questioni tra l’altro legate tra loro, perché pare incoerente sostenere che il fatto sia avvenuto al di fuori del territorio indiano (così che sarebbe competente il giudice dello stato la cui bandiera è battuta dalla imbarcazione ove si è verificato) e contemporaneamente… che non è mai avvenuto affatto! Caso in cui il giudice indiano non avrebbe affatto da spogliarsi del caso a favore delle corti italiane, non più di quanto dovrebbe farlo a favore di quelle della Mongolia o della Liberia – dato che evidentemente una cosa mai successa non è successa in nessun luogo che permetta di stabilire una giurisdizione diversa da quella adita-, ma semmai dovrebbe assolvere.

Pretendere che i due imputati andassero liberati senza processo (e in particolare per atto governativo, ed in violazione dell’autonomia della corte investita del procedimento) naturalmente è una richiesta che può essere basato unicamente su argomenti come l’invio delle cannoniere. O sul tipo di potere colonialista che ha consentito agli USA di ottenere il recente noto provvedimento di “grazia” dal presidente della repubblica italiana utile a tirare almeno in parte un tratto di penna su reati di sequestro ed espatrio clandestino a fini di tortura e carcerazione illegale, che a quanto accertato commessi in Italia da funzionari del relativo paese.

Ora, il tentativo di ottenere qualcosa del genere da parte di chi non ha né la forza né il potere contrattuale per imporla è indubbiamente un atto ostile ed irrispettoso nei confronti del paese che si sarebbe voluto sottoporre a pressioni, magari invocando solidarietà da parte di “alleati”, o secondo altri padroni, che si sono invece prevedibilmente distinti per la loro totale indifferenza.

La cosa è naturalmente aggravata dal fatto che in Italia sia stato generato internamente un movimento d’opinione, o meglio una campagna mediatica, totalmente prevenuti, ed incline ad attribuire un carattere odioso, se non illegittimo, al modo in cui sono stati trattati gli imputati – che sinora sono stati soggetti ad una detenzione assolutamente speciale per un periodo ridicolmente breve rispetto agli anni e anni di custodia cautelare consentiti dalla procedura penale italiana, e successivamente hanno continuato a vivere indisturbati in India in un albergo di lusso subendo come unica misura di sicurezza il ritiro del passaporto.

Se tutto questo tipo di gestione della crisi può aver eventualmente giovato a qualcuno, è molto dubbio che abbia avvantaggiato la stessa difesa dei due “imputati-martiri”, e certamente ha creato un’ovvia reazione uguale e contraria nell’opinione pubblica indiana, di cui il relativo governo, che probabilmente da parte sua non avrebbe visto l’ora di liberarsi politicamente della relativa piccola grana, non potrà fare a meno di tener conto.

 

 

3) E’ giustificabile nell’intera vicenda l’assenza – o se si è 
mostrato lo ha fatto in maniera molto defilata – del Ministro degli
 Esteri Italiano Terzi di Sant’Agata (solamente De Mistura è comparso a
 più riprese) come quella dello stesso Capo del Governo Italiano Mario
 Monti? Le dimissioni non sono state un atto dovuto?

Le scelte degli interessati sono state probabilmente giustificate da preoccupazioni di politica interna italiana, ma si sono rilevate piuttosto maldestre e schizofreniche anche sotto tale profilo. L’ossessione di dimostrare e strombazzare la pretesa autorevolezza internazionale del “governo dei tecnici” si è in particolare mal combinata con una più tradizionale inclinazione della repubblica italiana a raggiungere un qualche tipo di soluzione sottobanco. Così come si sono mal combinate la consapevolezza della sostanziale impotenza del nostro governo, a cominciare dal profilo militare, e il desiderio di salvare le apparenze facendo la faccia truce, ma non tanto da vedere la propria faccia personalmente identificata con il fallimento che il relativo “ruggito del topo” non ha mancato di sortire.

Il machiavellismo da portineria del “permesso elettorale” e il tentativo di fregare l’India non riconsegnando gli imputati, salvo fare precipitosamente marcia indietro quando ci si è resi conto (ad urne ormai utilmente chiuse…) della china pericolosa e impraticabile su cui ci si era posti, naturalmente ha dato il tocco di ridicolo finale ad una situazione già compromessa.

In questo scenario, le dimissioni del ministro Terzi, certo complice dell’accaduto ma probabilmente preso in giro a sua volta, sono alquanto comprensibili. Come è anche comprensibile che il correlato scandalo istituzionale non abbia trovato di meglio, nella più pura tradizione del basso impero, che farne una questione di “etichetta”. Si sa, nessun monarca e primo ministro è più geloso delle proprie prerogative formali di quelli che amministrano per conto terzi, e sono ridotti a fiduciari o fantocci di altri poteri.

 

 

4) Soltanto per fare una congettura, in che maniera si sarebbe comportato, in una situazione analoga, il governo di un altro Paese?

Il governo di un paese che è in grado di ignorare i giudici e le leggi di un certo territorio, quando ritiene che per certe categorie di atti o persone abbia interesse a farlo, semplicemente lo fa. Non è detto che lo faccia sempre (Amanda Knox è stata pacificamente processata senza che a qualcuno venisse in mente di mandare i marines ad “estrarla” dal territorio italiano), ma tipicamente estende questo trattamento ai suoi diretti agenti, in modo che gli stessi possano agire senza troppe preoccupazioni. Se persino i loro dirigenti e comandanti ritengono che qualche panno sporco vi sia, lo stesso sarà invariabilmente lavato in famiglia.

Al massimo, se proprio il paese in questione si preoccupa di consentire ai governi locali di salvare la faccia farà in modo di far approvare da questi ultimi in via generale qualche regime di extra-territorialità legale, come nei casi della funivia del Cermis, o degli stupri di Okinawa, o di Abu Graib; ma nella maggiorparte dei casi si limiterà a riportare a casa manu militari i possibili responsabili, come per nel caso del rapimento di Abu Omar, ed a rifiutarne ovviamente l’estradizione, salvo magari ottenere tramite i propri fiduciari, ascari e reggicoda locali… la grazia “sovrana“ del paese da cui gli stessi sono evasi.

Al di fuori di questi scenari, noleggiare i propri militari ad armatori privati per compiti di polizia da svolgere fuori dai confini nazionali e da contingenti di qualche entità li espone evidentemente alla cattura.

Se si tratta poi di una cattura da parte di governi riconosciuti dall’Italia, e su cui è impensabile che le forze armate italiane possano far valere il “diritto del più forte”, mi sarebbe parso al tempo stesso più dignitoso e realistico dare la precedenza alla loro difesa processuale, senza sfidare velleitariamente il potere della corte di decidere, come fanno tutte le corti del mondo, sulla propria giurisdizione.

 


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